San Giovanni Battista – Il culto

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All’indomani dell’emanazione dell’Editto di Costantino, sottoscritto a Milano nel 313 d.c. per sancire la libertà di culto per tutti i cittadini dell’Impero, finalmente il popolo cristiano poté abbracciare la “buona novella”, senza più il timore di doversi nascondere all’interno delle catacombe e il pericolo di imminenti persecuzioni, violenze e martirii.

La Sicilia, ritenuta tra l’altro una fiorente Provincia romana, nonostante avesse già iniziato a evangelizzare segretamente prima che il volere di Costantino diventasse legge dello Stato, alla notizia della libertà di culto vide incredibilmente crescere il numero dei proseliti, poiché nel Cristianesimo i cittadini, provati dalle sofferenze, trovarono conforto e speranza.

Con questa acquisita certezza la stessa popolazione dell’antica Ibla si adoperò per radunare il popolo di Dio senza più alcuna restrizione, iniziando quindi a preparare il terreno per la costituzione della prima comunità cristiana in spazi ricavati appositamente per il culto, l’istruzione e il battesimo dei catecumeni, che sarebbero stati chiamati anche “gli Illuminati”, perché i loro occhi si sarebbero aperti alla realtà del regno di Dio. Tutto questo indubbiamente sulla scia della missione attuata da Giovanni il Battista, considerato una figura cardine nell’aver preconizzato il Verbo di Dio fatto carne.

Intanto nell’anno 717, dopo aver usurpato il trono dell’Impero romano d’Oriente a Teodosio III, Leone III detto l’Isaurico, passato alla storia per la sua accesa lotta iconoclasta contro le immagini sacre (726), non esitò ad apportare riforme statali e a condurre vani tentativi per imporre la supremazia sull’Impero romano d’Occidente sempre più indebolito, includendo in più la destituzione di papa Gregorio II prima e Gregorio III poi, ma trovando nello stesso tempo il sistema per portare la Grecia e l’Italia meridionale, Sicilia inclusa, sotto l’egida del patriarcato di Costantinopoli.

A esse di conseguenza vennero estese, oltre alle leggi civili e amministrative, anche le leggi ecclesiastiche, inducendo la Sicilia e quindi la cittadina iblea ad abbracciare il rito greco, facilitando in particolare l’introduzione del culto di un santo come san Giorgio, il quale venne accolto dal popolo e favorito principalmente dal governo della città sia durante la dominazione saracena (dall’848), sia durante la successiva dominazione normanna (dal 1063), nonostante fosse stato ripristinato nuovamente il rito latino.

L’entrata del primo millennio segnò inoltre l’inizio di una grande opera di abbattimento e riconversione dei tanti templi pagani presenti sul territorio, con l’erezione di numerose piccole chiese dedicate alla Vergine e ad altri santi.

Nel frattempo verso il 1083 un considerevole numero di cittadini in fuga dalla città di Cosenza, si diresse verso la Sicilia e in particolare verso la zona sud−orientale, scegliendo Ibla come luogo più adatto alle proprie aspettative di vita. Accolti con una certa circospezione dall’aristocrazia, vennero relegati nella parte più periferica della città, dove risiedevano cittadini di modestissimo grado sociale che da tempo avevano iniziato a nutrire una devozione verso san Giovanni Battista.

Questa parte dell’antica città, che si concentrava al di sotto del magnifico castello di matrice bizantina, comprendeva il quartiere del Purgatorio per estendersi fino ai quartieri Mocarda e Pirrera e a causa delle abitazioni molto precarie dal punto di vista strutturale, venne poi ribattezzata “’re Pagghiaredde” come anche “’re Cosentini”. La placida convivenza con i nuovi arrivati, nei secoli successivi, non fu soltanto motivo di crescita demografica per questa porzione dell’agglomerato urbano che divenne la più popolosa della città, ma contribuì in più a incrementare il culto verso il santo precursore.

Si hanno notizie dell’esistenza di una prima chiesa a lui intitolata già dal 1308, benché rimanga ancora oggi sconosciuto il luogo dove precisamente sorgesse. Intanto agli inizi del XV secolo venne individuato il sito della vetusta chiesa di Sant’Andrea, situata all’interno del loro quartiere e ormai completamente diroccata, per iniziare a costruire una più modesta chiesa che ebbe però vita breve, perché già dalla fine del XVI secolo si decise di rimaneggiarla per renderla più maestosa e capiente, tanto da essere paragonata, da uno storiografo locale del tempo, al “Vaticano di Roma”. Una descrizione che non cela l’orgoglio e il vanto di una parte della popolazione, in particolare quella costituita da piccoli imprenditori agricoli (“massàri”), divenuta nel tempo la nuova classe emergente e arricchitasi grazie al sistema agricolo enfiteutico, di aver contribuito con le proprie sostanze per possedere una chiesa capace di tenere testa, in termini di bellezza, all’altra più in vista della città, quella del martire di Cappadocia. Risulta tuttavia difficoltoso capire se il compilatore, nel tessere quelle lodi in maniera esagerata e oltretutto poco chiara, abbia voluto fare riferimento alla planimetria, alla facciata o semplicemente al solenne linguaggio romano tardo rinascimentale.   

La chiesa, nonostante esistesse giuridicamente sin dal 1460 e fosse una delle cinque parrocchie cittadine, rientrava però sotto la giurisdizione della chiesa di San Giorgio, quest’ultimo diventato sin dalla conquista normanna patrono e protettore.

L’appartenenza alla parrocchia “rivale” generava logicamente malumori e attriti, anche perché il parroco di San Giorgio a partire dal 1389 guidava altresì la stessa chiesa di San Giovanni, sfociando in più in una vera e propria questione campanilistica perché entrambe rivendicavano il ruolo di matrice. Bisognava aspettare il 1620 per assistere a un temporaneo cambiamento.

Apparve infatti determinante la figura del dotto sacerdote ragusano don Ascenzio Gurrieri (1587−1645), uomo tra l’altro vicino al cardinale Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII, in quanto precettore di suo nipote, il cardinale Francesco Barberini. Don Ascenzio, sangiovannaro fino al midollo e possibile promotore dell’ampliamento di questa magnifica chiesa, trascorse buona parte della sua vita nell’Urbe, eccetto la parentesi ragusana che va dal 1609 al 1620, per poi concludere la sua vita come vescovo di Castellaneta (TA). La stretta vicinanza all’alto prelato contribuì non poco a far sì che la Santa Sede, sotto la reggenza di papa Paolo V Borghese, rilasciasse l’autorizzazione per la divisione delle due parrocchie, nominando di conseguenza lo stesso Gurrieri primo parroco di San Giovanni, mansione che tuttavia ricoprì relativamente sino al 1626 per via dei suoi impegni a Roma e che lo portò a delegare il calatino don Francesco Alcorasi. Don Ascenzio in più era forte del fatto di avere le spalle coperte grazie al fratello uterino don Vincenzo Laurifici, anch’egli non soltanto convinto sangiovannaro ma, come lui, vicino al cardinale Barberini il quale, una volta diventato papa nel 1623, lo nominò vescovo di Monreale nel 1624, senza però prendere mai possesso di quella sede, visto che la morte lo colse all’improvviso, con la rigorosa sepoltura all’interno della stessa chiesa di San Giovanni a Ragusa.

La tanto agognata scissione naturalmente scatenò dissidi, disordini anche incontrollati, come la stessa concitata carcerazione dell’Alcorasi, e solo l’inizio di quelle profonde divisioni che non solo riportarono la situazione in statu quo ante, come detto prima, nel 1626, ma, continuando a manifestarsi per lunghi decenni, risultarono uno dei fattori determinanti per riscrivere la storia della città dal punto di vista urbanistico e amministrativo dopo l’infausto terremoto del 1693.

Tuttavia, nonostante questa delicata situazione, non furono posti limiti alla devozione verso il Battista e vincoli per i festeggiamenti che in quel tempo avevano luogo il 24 giugno, ricorrenza della Natività, come anche durante i giorni dell’Ottava.

Sicuramente la prima vera e memorabile festa di San Giovanni fu quella del 24 giugno 1612, quando tra i vicoli e le viuzze che gravitavano intorno all’antica chiesa si dipanò una partecipata processione con candele, denominata “Luminaria”, che può essere considerata l’antenata dell’odierna processione e che fu fortemente voluta in seguito alla donazione alla parrocchia di due reliquie del santo, un dente e un frammento osseo, da parte dell’allora governatore della Contea di Modica Paolo La Restia, al quale vennero elargite a Palermo il 30 maggio 1612 mediante atto notarile redatto insieme a un’autentica.

Negli anni a venire la processione divenne più solenne per via di una sistemazione più decorosa delle stesse. Il dente, per la precisione, venne incastonato all’interno della bocca di una pregevole testa in argento raffigurante il volto di San Giovanni, contenuta in un artistico piatto in argento e rame dorato, il tutto realizzato interamente nel 1641 da Paolo e Cesare Aversa, rinomati argentieri palermitani operanti a Catania, mentre invece il frammento osseo venne riposto in un braccio, anch’esso rigorosamente in argento, creato da altre maestranze siciliane nel 1664, come ex voto del nobiluomo don Antoniuzzo Sortino Trono.

Con il terremoto del 1693 anche la chiesa di San Giovanni subì danni di un certo rilievo che ne prospettarono inizialmente un possibile abbandono, dal momento che si salvarono solamente una navata laterale con sei colonne, alcune cappelle laterali e la facciata. 

Con una città pienamente ferita nel corpo e nell’anima si ingenerarono, com’era prevedibile, accesissime discussioni sulle possibili soluzioni da adottare sempre più condizionate dagli schemi perorati dai massàri, ormai in piena ascesa nel tessuto sociale, i quali spingevano per ricostruire in un sito completamente nuovo e più adatto alle loro esigenze, motivati anche dalle ormai irrisolvibili divergenze con l’aristocrazia cittadina, che governava la città, e con la stessa parrocchia di San Giorgio, dalla cui sottomissione volevano liberarsi. Questo infatti li indusse a valutare inizialmente l’ipotesi di ricostruire in contrada Cutalìa, una zona in buona parte pianeggiante a metà tra Ragusa e la futura Mazzarelli, poi però accantonata perché si resero conto che la stessa porzione di territorio, ancora disabitata, che si estendeva al di sopra della chiesa extra moenia di Santa Maria delle Scale sarebbe stata ideale, non proprio eccessivamente lontana da Ibla, certo, ma pur sempre distante. Una volta fatti convinti di questa scelta, avviarono tutte le pratiche per riscrivere la storia della nuova città, che si sarebbe apprestata a essere divisa quindi in Inferiore e Superiore dal 1695 al 1703 con decreto del viceré duca di Uzeda. Tanti erano i cittadini in preda alla confusione, come tante erano nello stesso tempo le tensioni e i malumori tra gli stessi sangiovannari, in quanto non tutti erano concordi per l’ormai inevitabile sdoppiamento della città, insistendo anzi per riparare la chiesa e le loro fatiscenti casupole, così da evitare la stessa separazione della parrocchia e della città. Niente da fare, totale irremovibilità. La decisione era stata presa e ognuno a questo punto doveva andare senza remore per la propria strada.

Prima di abbandonare definitivamente il vecchio sito per poter finalmente voltare pagina, la parte “scissionista” non indugiò nel portarsi dietro valori affettivi come gli arredi sacri, la statua da nicchia di San Giovanni “uniuru”, le due reliquie e tutto ciò che potesse servire per il regolare svolgimento delle funzioni religiose, anche se inizialmente all’interno di una struttura provvisoria messa in piedi nelle adiacenze del luogo, scelto senza tanti ripensamenti, dove sarebbe stata edificata una prima versione della chiesa, con tanto di autorizzazione del vescovo di Siracusa già dal 3 aprile 1694.

In mezzo a tutta questa generale confusione, il parroco di San Giorgio continuava ad amministrare entrambe le parrocchie.

L’insistenza di coloro che invece volevano rimanere in situ determinò la messa in sicurezza della chiesa, da cui ne fu ricavato un sacello subito ribattezzato “Oratorio delle Cinque Piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo” e accessibile già dal 1695, ma l’anno successivo tutto fu reso vano dai persistenti rancori di chi li aveva indotti ad abbandonare a tutti i costi la chiesa, arrivando al punto da intimidirli ulteriormente con il piazzamento di una carica esplosiva che ne aggravò lo stato di conservazione, come riporta una nota del 1708 che attesta che <<la chiesa può dirsi più che dal tremuoto dall’altrui empietà rovinata e distrutta>>.

Ai vani tentativi di ricostruirla sotto il titolo di Natività di San Giovanni Battista, utilizzando le sue stesse rovine e con il benestare del vescovo di Siracusa durante la visita pastorale del 1704, si contrappose in un primo momento la bizzarra idea, poi subito scartata, di costruirci la nuova chiesa di San Giorgio, mandando ovviamente su tutte le furie i sangiovannari di Ragusa Superiore che reclamavano i propri ruderi, culminando in un successivo inasprimento, quando si sparse seriamente la notizia del loro reale utilizzo per la costruzione della chiesa di San Giorgio che dal 1738 iniziava a prendere forma, questa volta però sulle rovine della chiesa di San Nicola.

Tensioni, quindi, che non ebbero tregua nemmeno dopo il definitivo allontanamento e neanche dopo la seconda e ultima scissione delle due parrocchie avvenuta nel 1714 per decreto di papa Clemente IX, che sanciva a questo punto la piena autonomia della parrocchia di San Giovanni, la cui guida veniva affidata a don Francesco Guarino.

Il destino dell’antica chiesa di San Giovanni, poi intitolata alla vergine e martire Agnese nel 1728, vide successivamente il rimaneggiamento nelle forme attuali, facendo così cadere nell’oblio la magnificenza di quella tanto decantata chiesa intitolata al Battista, di cui rimane qualche traccia architettonica sulla fiancata esterna e che viene ancora oggi ricordata come chiesa di San Giovanni Lo Vecchio.

Nella prima metà del Settecento la festa, ormai sentita e portata avanti solamente nel nuovo abitato, subì un fisiologico rallentamento sia per le sostenute spese della seconda fabbrica che iniziò a prendere forma dal 1719, sia per la realizzazione dell’urna reliquiaria che venne realizzata nel 1731 dagli argentieri messinesi Pietro Paparcuri e Gaspare Garufi.

Tutto questo palesò in un primo momento forti dubbi sul prosieguo della stessa Luminaria che logicamente andò a scemare, ma più trascorrevano gli anni e più invece accresceva la partecipazione del popolo ragusano a questa importante tradizione che si snodava tra le vie del nuovo agglomerato urbano.

Si aggiunsero oltretutto alcune manifestazioni a carattere prettamente folkloristico come la Sarcìa, la Cuccagna e la corsa dei cavalli (Palio).

L’evento senz’altro più sentito fu la Sarcìa, nome di probabile derivazione spagnola che indica il termine carico. Infatti, per questa circostanza, in piazza San Giovanni si riversava una miriade di cittadini che, in sella a cavalli riccamente bardati, si metteva in cammino per raggiungere il fiume Irminio, passando ovviamente per Ibla, al seguito di una lettiga che trasportava un giovane nelle vesti del Battista.

L’intento, benché risulti ancora oggi poco chiaro dal punto di vista antropologico, era quello di fare scempio dei tanti alberi presenti nei dintorni del fiume con l’impietoso taglio dei rami e alla fine di questo rituale, nonostante l’immane deturpamento del luogo, i sarcianti riprendevano noncuranti e impettiti la strada del ritorno, ignari però delle insidie che i sangiorgiari tenevano loro, specie nel rendere viscide le strade lastricate dopo averle cosparse di sapone. Era una ghiotta occasione per continuare a fomentare tensioni mai assopite e per sovvertire l’ordine pubblico, ma tutto rientrava come se nulla fosse accaduto, perché i sangiovannari, una volta giunti in piazza San Giovanni, esibivano appunto questo carico come un trofeo, accolti da un vivace scampanio. In pieno Settecento, sul lato della piazza che negli anni a venire sarebbe stato prescelto per la chiesa della Badia, si svolgeva invece il gioco della Cuccagna. In questo caso la regola prevedeva il raggiungimento di una loggia montata su alti pali, resi scivolosi per via dell’olio, che il più valoroso doveva scalare per arrivare fino in cima dove era imbandita una lauta mensa.

Così come molto partecipato fu il Palio, la corsa dei cavalli che aveva luogo lungo l’attuale corso Italia, in quel tempo ritenuto la principale arteria, tanto che ancora oggi le vecchie generazioni la ricordano etichettata come “a strata ro Paliu”. Fatta eccezione per quest’ultimo, manifestazioni come la Sarcìa, tenuta in vita sino al 1840, e la Cuccagna, nonostante registrassero una notevole affluenza, vennero depennate perché, come si diceva poc’anzi, erano fonti di disordini e di malumori. Intanto verso la seconda metà del Settecento iniziò a piacere l’idea di posticipare i festeggiamenti esterni, anche se a singhiozzo, dal 24 giugno al 29 agosto, ricorrenza della Decollazione di San Giovanni, con la relativa cancellazione dell’Ottava, ma bisogna comunque sottolineare che questo spostamento accadde precedentemente altre volte per svariati motivi. Il far slittare la festa da giugno ad agosto molto probabilmente fu dovuto all’impossibilità dei massàri, considerati ovviamente la parte attiva del popolo sangiovannaro, di partecipare alla tanto attesa festa per via degli improcrastinabili impegni di mietitura, oppure per far coincidere la festa sia con la fiera del bestiame che si svolgeva nelle vie più larghe del nuovo abitato il 28 e il 29 agosto, sia con il mercato di generi (l’antica versione delle odierne bancarelle), che invece era approntato all’interno delle logge, sotto il sagrato, dal 28 agosto al 5 settembre. Lo spostamento si può comunque ritenere definitivo a partire dal 1840, anno che, come ricordato prima, vide l’accantonamento della Sarcìa ed elevò nello stesso tempo la festa della Decollazione a festa di “prima classe”, lasciando alla ricorrenza della Natività il lato liturgico.

Rimane memorabile il concerto d’organo tenutosi nel 1858 in occasione dell’inaugurazione del magnifico organo costruito dalla rinomata ditta Serassi di Bergamo, così come la processione del 1861 con la prima statua processionale di San Giovanni consegnata alla fervida devozione del popolo ragusano dal maestro Carmelo Licitra, mentre lasciò tanto sgomento la morte del pilota belga Henry Blondeau, avvenuta tragicamente durante l’ascensione del suo pallone aerostatico per via delle cattive condizioni meteorologiche e la cui presenza avrebbe dovuto dare un valore aggiunto alla festa del 1890.

Eventi, questi, incastonati nella storia di questa festa che si uniscono alla devozione del popolo ragusano, di anno in anno sempre più crescente, verso il patrono San Giovanni.

Lo dimostra anche l’imprecisato numero delle fiuredde disseminate nelle zone di campagna del territorio di Ragusa e delle edicole votive incastonate sulle facciate di innumerevoli palazzi del centro storico di Ragusa Superiore, in seguito anche all’emanazione della bolla di papa Leone XIII che il 13 gennaio 1896 decretò “San Giovanni Battista Patrono di Ragusa Superiore”, dal momento che nel 1865 la città venne nuovamente divisa in Inferiore e Superiore. Divisione che tuttavia durò poco perché nel 1927 avvenne la definitiva riunificazione della città e l’istituzione della Provincia di Ragusa.

Con l’istituzione, invece, della diocesi di Ragusa il 6 maggio 1950, la chiesa di San Giovanni Battista divenne cattedrale e san Giovanni dichiarato “Patrono della città e della diocesi di Ragusa”.

Ancora oggi la collettività ragusana continua a seguire le orme dei propri avi omaggiando il suo patrono in questi due tanto attesi momenti dell’anno. La ricorrenza della Natività, nel cocente mese di giugno, viene preparata spiritualmente sin dall’inizio del triduo, che culmina giorno 23 quando puntualmente si perpetua anche un’antica tradizione culinaria che consiste nel mangiare un piatto povero ma succulento di fave bollite, condite con olio, sale, aceto e origano, “pì sguittàri i piccàti”, ossia per l’espiazione dei propri peccati, perché il 24 bisogna presentarsi al cospetto di san Giovanni con l’animo mondato da ogni scoria. Nel giorno della nascita del precursore, sin dalle prime luci dell’alba, prende poi vita un frenetico andirivieni di cittadini, devoti e pellegrini che non vuole tradire sia la consuetudine di partecipare alla celebrazione eucaristica, reiterata ogni ora con la tanto attesa benedizione finale mediante il braccio reliquiario, sia la tradizionale “addumata ra cannila” dinanzi a una statua del Battista collocata nel giardino di corso Vittorio Veneto.

L’ultima celebrazione, quella serale, come da tradizione è animata dal Comitato Festeggiamenti, dall’Associazione Culturale San Giovanni Battista e dai numerosi portatori del fercolo, che ogni anno rinnovano la loro devozione con l’immancabile t−shirt rossa.

La festa principale, che è anche quella esterna, si svolge, come detto prima, nel mese di agosto a partire dalla sera di giorno 19 quando, al termine della celebrazione eucaristica, viene aperta la cameretta dove è riposto l’ardito simulacro che al grido “Patronu viva” viene traslato nel braccio sinistro del transetto proprio di fronte alla stupenda arca santa.

Con l’inizio del novenario si articolano di giorno in giorno le celebrazioni eucaristiche animate dalle parrocchie della nostra città e da quelle della diocesi che venerano allo stesso modo il santo precursore, come anche i vari appuntamenti esterni che contraddistinguono la festa, alcuni dei quali ritenuti vere e proprie tradizioni, tipo l’immancabile esecuzione della famosa “Novena di San Giovanni” eseguita dalla storica corale della cattedrale, la “Rassegna teatrale monsignor Pennisi” in piazza San Giovanni, lo storico “Raduno del cavallo ibleo” dinanzi alla Curia vescovile, gli “Eventi culturali” al Polo Culturale di Palazzo Garofalo, le tanto attese bancarelle lungo la via Natalelli e tante altre iniziative che porteranno al triduo del 27−28−29 agosto.

Giorno 27 la sublime statua riabbraccia dopo un anno la sua città, accolta da un popolo festante che attraverso le principali arterie la condurrà in una parrocchia, ogni anno diversa, che la ospiterà fino al pomeriggio di giorno 28, quando farà rientro in cattedrale attesa da una piazza gremita e pronta a vivere la cosiddetta “Sera della vigilia”, contraddistinta da un piacevole spettacolo di cabaret e musica. Il 29 invece è il principale giorno di festa che vede l’intera città fermarsi per onorare il suo patrono e per prendere parte alla caratteristica processione cittadina.

Il tanto agognato pranzo di San Giovanni, il cui piatto principe in questo caso è la prelibata “Iaddina co’ cinu” (ossia la gallina ripiena con le proprie interiora triturate e impastate con spezie, pangrattato, caciocavallo Ragusano DOP e messa in cottura nel brodo, cui verrà aggiunta la pasta fresca all’uovo tagliata a quadratini o, se si vuole rispettare la tradizione, a sottili tagliolini meglio conosciuti come Tagghiarini), non è solamente un momento di aggregazione familiare, ma prepara spiritualmente ogni singolo cittadino ragusano a vivere la più importante processione costituita da una chilometrica processione di ceri, figlia di quella Luminaria che si originò tra le vie dell’antica Ibla. Essa segue un suggestivo percorso per le vie del centro storico di Ragusa superiore insieme all’arca santa, al venerato simulacro e alla presenza delle autorità civili, militari, del vescovo e dei sacerdoti della città e della diocesi di Ragusa. 

È innegabile che i protagonisti di questo intenso “viaggio spirituale” siano il silenzio e la preghiera, ma è indubbia tuttavia la consapevolezza che portare il cero, magari a piedi nudi o con un indumento rosso, non simboleggi solamente il chiedere una grazia o scioglierla, bensì percorrere accanto a Giovanni il Battista il cammino della vita ed elevare al Signore la nostra preghiera che sale insieme al cero stesso che si consuma.

L’atmosfera che si crea rende questa festa unica in tutta la Sicilia e questa sua peculiarità le ha permesso di essere stata inserita nel Registro del Patrimonio delle Eredità Immateriali della Regione Siciliana nell’anno 2015.

La giornata di festa si conclude con il tradizionale e suggestivo spettacolo pirotecnico di mezzanotte approntato sul ponte Giovanni XXIII, che rende sfavillanti di luci e colori le facciate di case e palazzi, come anche i cuori di migliaia di devoti ragusani, pellegrini e visitatori assiepati in ogni dove.

© Testi a cura di Fabrizio Occhipinti – E’ vietata la riproduzione anche parziale