Sin dall’anno 2002 la cattedrale San Giovanni Battista viene reputata dall’Unesco un ineffabile scrigno di magnificenza della città di Ragusa, tanto da essere dichiarata, insieme ad altri diciassette monumenti, “Patrimonio mondiale dell’umanità”, proprio perché tutti quanti insieme hanno contribuito non poco a caratterizzare, attraverso le loro peculiarità e la loro spiccata bellezza, l’ampio centro storico, che da Ibla si estende verso la parte alta della città, considerato <<un’eccezionale testimonianza dell’arte e dell’architettura del Tardo Barocco>>.
La sua costruzione iniziò a vedere la luce subito dopo il terribile terremoto dell’11 gennaio 1693, il cosiddetto “Terremotu ranni”, evento calamitoso devastante per tutta la Sicilia orientale e anche per l’antica Ragusa, la quale pagò, tra l’altro, il prezzo più alto in termini di vittime, visto che su una popolazione di circa diecimila abitanti ne perirono cinquemila. Dinanzi a una città “tota diruta”, stando a quello che riportano le fonti storiche, i cittadini superstiti, già separati da agitazioni sociali pre−terremoto e coinvolti nelle incessanti beghe campanilistiche tra la parrocchia di San Giorgio e quella di San Giovanni, si trovarono ad affrontare il dilemma alquanto spinoso sulla ricostruzione della nuova città.
Se da un lato l’aristocrazia non arretrava nel voler ricostruire sullo stesso sito, dall’altro lato una nuova classe in ascesa costituita dai cosiddetti “massàri”, veri e propri imprenditori agricoli oltretutto particolarmente influenti all’interno della parrocchia di San Giovanni, voleva fermamente ricostruire in un sito completamente nuovo e precisamente sull’altopiano che si estende al di sopra della vetusta chiesa di Santa Maria delle Scale.
Non potendo trovare una mediazione, si optò per lo sdoppiamento della nuova città e per volere di questi temerari cittadini il volto urbanistico della nuova Ragusa cambiò radicalmente. Fu così che l’antica chiesa di San Giovanni Battista, che sorgeva sin dal XV secolo al posto dell’ormai fatiscente chiesa di Sant’Andrea, nel quartiere conosciuto come “’re Cosentini” o “’re Pagghiaredde”, dal 1695, dopo una prima messa in sicurezza, venne nuovamente riaperta al culto solo per quei cittadini e devoti sangiovannari che avevano deciso di rimanere, ma venendo rinominata “Oratorio delle Cinque Piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo”. Successivamente riadattata e intitolata a Sant’Agnese, ingloba le vestigia di quella superba chiesa, tanto che ancora oggi viene ricordata come chiesa di San Giovanni Lo Vecchio. Tutti quei sangiovannari che invece decisero di voltare pagina in quella porzione di territorio del tutto nuova, le cui caratteristiche orografiche erano ben diverse da quelle dell’antico abitato, individuarono sia l’area dove costruire le prime abitazioni sia quella dove sarebbe stata eretta la nuova fabbrica di San Giovanni, ottenendo subito il permesso dal vescovo di Siracusa il 3 aprile 1694.
Con la posa della prima pietra avvenuta appena undici giorni dopo, il 14 aprile, iniziò la costruzione di una prima timida versione della chiesa con alla guida una personalità molto esperiente in campo costruttivo, Mario Spata, il quale, pur essendo un capocantiere, ebbe tutte le carte in regola per fare il progettista, tanto che parallelamente dirigeva altri cantieri in città come Modica e Scicli, anch’esse non sfuggite all’incredibile furia dell’evento sismico. La chiesa, eretta in appena quattro mesi nelle vicinanze dell’odierno sito e con il prospetto che si affacciava sulla “Strada maestra” (l’attuale corso Italia), risultò chiaramente poco capiente per il nuovo insediamento che cresceva a dismisura, ma tuttavia sufficiente per potere svolgere le sacre funzioni. Intanto alla divisione della città avvenuta nel 1695 e alla repentina riunificazione nel 1703, si aggiunse la dissoluzione dalla chiesa di San Giorgio in seguito a un decreto del 1714 di papa Clemente IX, che sancì la tanto agognata autonomia e costituì finalmente l’occasione propizia per materializzare il sogno di una fabbrica più magnificente, con un naturale riflesso di significati principalmente di natura politico−sociale. L’incipit dei lavori venne comunque procrastinato all’anno 1719, perché nello stesso tempo l’attenzione era rivolta anche all’impianto urbanistico a maglia ortogonale del nuovo abitato, che doveva quindi contenere la nuova chiesa intitolata al precursore, la quale, pur non ostentando dal punto di vista progettuale un linguaggio innovativo, avrebbe dovuto fare immancabilmente la sua parte, da un lato nei confronti della nuova chiesa dedicata al santo cavaliere e dall’altro lato nei confronti delle altre titolate chiese madri dell’isola. La presenza di due maestranze di tutto rispetto come Giovanni Arcidiacono e Giuseppe Recupero, entrambi di Acireale, per i quali non è esclusa oltretutto una direzione dei lavori, rivela chiare analogie con l’architettura acese e catanese. A essi si aggiunge quella del noto intagliatore di pietre Carmelo Cultraro, capostipite di una numerosa famiglia di scalpellini. Il progetto, non pervenutoci, verteva su una tipologia basilicale molto ricorrente nel ’500 italiano, predisposta cioè ad accogliere le grandi masse. Il tipico impianto a croce latina, questa volta direzionato verso oriente, venne suddiviso in tre navate con cappelle laterali, con un ampio transetto e l’abside affiancata da due cappelle, mentre invece per l’esterno si pensò a una facciata tripartita (versione precedente a quella attuale) e a un campanile a pianta quadrata più arretrato che l’affiancasse alla sua destra.
I lavori procedettero spediti tanto che nel 1731 una prima versione del campanile venne ultimata e soltanto dieci anni dopo, nel 1741, la chiesa stessa venne ufficialmente aperta al culto, con la conseguente spoliazione di tutti gli arredi della costruzione del 1694 che fu a questo punto demolita mediante autorizzazione vescovile. Completato il secondo ordine della facciata, vennero poste due meridiane datate 1751. Quella di sinistra misura il tempo in ore italiche (da tramonto a tramonto), mentre invece quella di destra misura il tempo in ore francesi (da mezzanotte a mezzanotte).
Nel 1760 si pensò intanto a un’ulteriore trasformazione del campanile con una maldestra e superficiale sopraelevazione costituita da due ordini sormontati da una guglia chiusa da una balaustra con quattro pinnacoli, la cui forma si avvicinava in linea di massima a quella già riportata nel 1746 dal mastro Tommaso Mazza sull’altra balaustra, quella del sagrato, ma la prevedibile precarietà dell’antica struttura, a base di pietra e calce, sollecitata dall’enorme peso di quest’ultima aggiunta, determinò pochi anni dopo gravissime lesioni e crepe allo stesso campanile, che minacciava rovina da un momento all’altro. Questo spinse i procuratori della chiesa a prendere urgenti provvedimenti prima che fosse troppo tardi. L’attuale e imponente facciata tardo barocca, che oggi ammiriamo nella sua silente e immota solennità, lunga 44 metri, è infatti il risultato di scelte architettoniche e costruttive rivisitate dall’architetto catanese Francesco Battaglia (Catania 1701−ivi 1788), uno dei più eminenti fautori della rinascita tardo barocca nel Val di Noto insieme a Rosario Gagliardi (Siracusa 1698−Noto 1762), Giovan Battista Vaccarini (Palermo 1702−Catania 1768), Francesco Paolo Labisi (Noto 1720−ivi 1798), Vincenzo Sinatra (Noto 1707−ivi 1765), convocato a Ragusa nel 1765 per arginare l’annoso problema.
Analizzando a fondo la situazione stilò una relazione mediante la quale rendeva fattibili due soluzioni: demolire il campanile e fonderlo direttamente sulla facciata, cosa quest’ultima per la quale peraltro lui propendeva perché sarebbe stata meno dispendiosa per le casse della chiesa, oppure mettere in atto mirate riparazioni e rinforzarlo alla base con un poderoso contrafforte, trattato a bugnato negli spigoli, che ne avrebbe agevolato l’inglobamento sulla facciata stessa, dando l’impressione di un avanzamento. In questo modo, per una ragione di simmetria, anche il lato sinistro avrebbe dovuto accogliere un altro campanile. Era chiaro quindi che, nel proporre questa seconda soluzione della “riparazione”, il Battaglia si sarebbe ispirato al cosiddetto “Tempio bislungo”, contenuto nel “V Libro di Architettura” del noto architetto e trattatista italiano del ’500 Sebastiano Serlio (Bologna 1475−Fontainebleau 1554), che senza alcun dubbio ebbe modo di studiare approfonditamente durante la sua formazione. Seguire quindi la direttrice serliana avrebbe pertanto comportato l’allungamento del primo ordine della facciata originaria di altre due partiture, una su entrambi i lati, ma ciò avrebbe anche permesso, come detto prima, di inglobare e rinforzare ulteriormente il campanile esistente e nello stesso tempo di costruirne uno simmetrico sul lato sinistro. La facciata in questo modo sarebbe risultata molto più maestosa e per nulla inferiore a quella di San Giorgio, anch’essa in piena fase di costruzione sebbene non più sotto lo sguardo vigile di Rosario Gagliardi, che era passato a miglior vita nel 1762.
I procuratori furono categorici nel voler scegliere la seconda soluzione, pur affidando i lavori al capomastro ragusano Cosma Nicastro e consapevoli del dispendio di altro denaro, visto che la zona del transetto e tutta la parte absidale erano in piena fase di costruzione. Inoltre non potevano ignorare le ulteriori spese previste per le modifiche che si resero necessarie per via del crollo improvviso di una porzione della volta nel 1764, che contribuì in parte alla trasformazione del secondo ordine della facciata, che doveva essere abbassato di ben cinque metri insieme al tetto della volta, così da facilitare anche l’inserimento della stessa cupola. Non ci furono ripensamenti. Qualunque fosse l’ingente spesa da affrontare, fecero partire questa clamorosa modifica che dal 1766 andò avanti speditamente negli anni a venire, con tanto di approvazione al termine di una meticolosa ispezione della fabbrica avvenuta nel 1769.
Negli anni successivi, sebbene ritenuta ormai completa, la facciata risultava tuttavia ancora manchevole del campanile di sinistra, ma la questione venne nuovamente affrontata nel 1832 sotto la convinta spinta del barone Mario Schininà Lupis e quando finalmente ci furono i presupposti per far partire i lavori, tutto a distanza di poco tempo dovette incredibilmente arrestarsi al livello della base, oggi coincidente con la partitura laterale sinistra della facciata, in seguito a un gravissimo e increscioso episodio che colpì la parrocchia la notte del 24 luglio 1834. Infatti la mano di sciagurati, senza scrupolo alcuno, depredò il tesoro della chiesa e costrinse logicamente i procuratori a impiegare tutte le somme, stanziate precedentemente, per il doveroso acquisto dei nuovi arredi sacri.
Di tutto questo prezioso patrimonio composto da pissidi, calici, ostensori e altri oggetti d’oro e d’argento non rimase alcuna traccia. Di conseguenza l’ambito desiderio di vedere la facciata rivisitata dal Battaglia con due campanili decadde definitivamente, nonostante ci fosse stato un ritorno di fiamma durante il ventennio fascista, allorquando venne richiamato a Ragusa il noto architetto romano Ugo Tarchi, che studiò approfonditamente il nuovo assetto urbanistico e architettonico della città nuova, mettendo mano alla progettazione del palazzo comunale e del governo, ma nello stesso tempo studiando nuove soluzioni per la sistemazione di piazza Umberto I (l’attuale piazza San Giovanni), aggiungendo appunto l’erezione del campanile di sinistra e della grandiosa galleria che avrebbe collegato inoltre il suddetto palazzo alla piazza. Questi ultimi tre progetti sono rimasti chiaramente impressi solamente su carta.
La stupenda facciata, sublimata dal colore caldo e appagante della pietra estratta rigorosamente dalle nostre cave, si presenta così suddivisa in cinque partiture da sei aggettanti colonne corinzie, con tre portali di cui il centrale è indubbiamente il più ricco, perché costituito da doppie colonne binate sormontate da una trabeazione con frontone curvilineo spezzato, all’interno del quale si apre una nicchia con la statua della Vergine Immacolata, affiancata da quella di San Giovanni Battista sulla destra e San Giovanni Evangelista sulla sinistra. La presenza di questa statua dell’Immacolata, che per lungo tempo la tradizione popolare riteneva provenisse dalla chiesetta rurale intitolata alla Vergine e demolita per cedere il posto alla nuova fabbrica di San Giovanni, è invece l’emblema della profonda devozione della popolazione di allora. Inoltre intorno a essa ruota una piccola curiosità da ascrivere tra le memorie storiche della nostra città: infatti il 17 maggio 1860, giorno dell’Ascensione, in seguito alla battaglia di Calatafimi e alla vittoria sull’esercito borbonico, i ragusani provarono una certa meraviglia nel vedere sventolare la bandiera del tricolore proprio tra le mani della statua della Vergine, sistemata dal giovane Emanuele Rizza su iniziativa del liberale garibaldino Luciano Nicastro, recante la scritta “Viva Vittorio Emanuele, viva l’annessione e i fratelli italiani!”.
Questo motto, unito alla presenza di giovani armati, posti a presidiare dinanzi al portone, era segno di una elevata tensione sociale e di una imminente insurrezione contro l’ormai decaduto governo borbonico.
Il secondo ordine, raccordato al primo mediante due svelte volute, presenta un finestrone centrale, affiancato come detto prima dalle due meridiane, sulla cui vetrata è raffigurato l’Agnello sul libro dei sette sigilli. Termina con un frontone triangolare su cui è posto un orologio elettrico collegato alla sovrastante campana.
Una delle prerogative del Tardo Barocco degli iblei era quella di porre l’attenzione principalmente sulla facciata delle chiese, per cui anche l’interno rispecchia un impianto prettamente cinquecentesco di tipo basilicale, con l’innesto della cupola rivestita esternamente da lamine di rame nel 1783 per scongiurare incombenti infiltrazioni.
Entrando all’interno di questo affascinante tempio sacro intitolato al Battista, si rimane rapiti dal linguaggio della sua architettura e dalla sontuosità delle sue decorazioni. Tutto questo grazie all’impegno economico profuso principalmente dai massàri, senza dimenticare anche le confraternite, le opere pie e la generosità dei tanti cittadini ragusani.
La fuga prospettica delle arcate, sorrette da possenti colonne corinzie, proietta lo sguardo verso l’altare maggiore su cui piomba una simbolica luce dalla cupola in un preciso momento del mattino. Imponente è la pianta a croce latina con tre ampie navate, scandite da dodici colonne corinzie con capitelli indorati, il cui fusto, interamente in pietra pece, è stato scialbato da un color avorio chiaro in modo da contrastare sia con la base, lasciata nel suo naturale colore nero, sia con il pavimento, uno dei preziosismi di questa chiesa, realizzato nel 1854 con intarsi geometrici in pietra calcarea bianca. Non si può non rimanere incantati da questa interessante bicromia.
Alzando gli occhi, la mirabile decorazione in candido stucco bianco, ingentilito da dorature, non è solamente un puro godimento estetico ma diviene per di più un racconto evangelico. Tra le arcate della navata centrale si stagliano eleganti angeli che reggono un cartiglio, su cui è riportata una citazione biblica riferita al Battista, il quale viene esaltato maggiormente da quella maestosa dell’arco trionfale con il “Non surrexit major”, ovvero “Non è sorto uno più grande” (Mt 11,11−15).
Il ricamo degli stucchi ricopre altresì le campate delle navate laterali, ogni rispettiva cappella, il transetto, l’abside, con putti, virtù teologali e dove tutto diventa un tripudio di fasto e ricchezza. Escludendo i cartigli tra le arcate della navata centrale, scolpiti dal ragusano Crispino Corallo nel 1741, il resto di questa incredibile decorazione è frutto del sapiente lavoro dei palermitani Giovanni e Gioacchino Gianforma, allievi dell’immenso Giacomo Serpotta (Palermo 1656−ivi 1732), che la eseguirono tra il 1776 e il 1778. Un ideale percorso tra le cappelle laterali, poi rivisitate nell’Ottocento con la rimozione degli originali altari in pietra calcarea finemente realizzati dalla famiglia Cultraro e surrogati da quelli in marmo policromo, può partire dalla prima cappella della navata laterale destra, quella del battistero, che colpisce per la vivacità dei colori degli affreschi eseguiti dal ragusano Salvatore Cascone (Ragusa 1904−ivi 1996) e ultimati nel 1954. Una vera e propria catechesi sul primo dei sette sacramenti, con scene dell’Antico e Nuovo Testamento che egli interpretò con la propria sensibilità.
Sulla volta domina l’Eterno Padre, con lo Spirito Santo in forma di colomba che irradia sette raggi luminosi alludenti ai sette doni in Esso immanenti. Alle tre figure angeliche oranti poste subito sotto, si affiancano due angeli ai quali ne corrispondono altri due sul lato opposto. Tutti e quattro mostrano i simboli del battesimo: il vaso con l’olio dei catecumeni, la lucerna accesa, la candida veste bianca e il vaso crismale. Tre virtù teologali e la virtù cardinale della Giustizia, riconoscibile dalla spada e dalla bilancia, si trovano invece sui pennacchi. Sulla parete sinistra, partendo dalla lunetta in alto, si ammira la rappresentazione della Creazione di Eva, del Peccato Originale e della Cacciata dal Paradiso. Sotto è raffigurata la scena dell’Acqua miracolosa fatta scaturire da Mosè nel deserto. Sulla parete di centro, iniziando dalla lunetta in alto, la rappresentazione della Crocifissione, della Resurrezione e della Deposizione, mentre sotto segue La missione degli apostoli e il battesimo amministrato da san Pietro. Sulla parete di destra, partendo sempre dalla lunetta, la Natività, l’Immacolata e l’Annunciazione, mentre sulla parte inferiore sono narrate La liberazione dall’Egitto e l’attraversamento del Mar Rosso verso la Terra Promessa.
Con la consegna di questo complesso lavoro, Salvatore Cascone divenne un artista molto prolifico e ricercato in quel periodo in tutto il circondario, per via delle sue innate qualità e per il suo insolito stile ancora tanto legato a quello dell’immenso pittore del primissimo Rinascimento, nonché frate domenicano, Beato Angelico (al secolo Guido di Pietro, Vicchio 1395−Roma 1455), al quale è stata intitolata a Milano la celebre Scuola Superiore di Arte Cristiana, frequentata dallo stesso Cascone, finalizzata in particolare alla conoscenza e all’approfondimento del suo stile.
Infine al centro della cappella, poggiante all’interno di una vasta vasca, si staglia il fonte battesimale con il superbo gruppo bronzeo del Battesimo del Signore, opera del noto scultore ragusano Carmelo Cappello (Ragusa 1912−Milano 1996) datata 1955. La seconda cappella è quella un tempo assegnata e finanziata dal ceto dei massàri, in quanto il santo titolare, Sant’Isidoro Agricola, era come il Battista a loro molto caro. Sopra l’altare marmoreo policromo è collocata la pala del 1773, di ignoto autore, che racconta il miracolo compiuto dal santo il quale fa sgorgare l’acqua dal terreno per dissetare un viandante provato dalla fatica. Sullo sfondo si intravede la figura di un angelo che ara il terreno al suo posto per permettergli di raccogliersi in preghiera. Sulle pareti laterali si notano elementi decorativi all’interno dei quali due putti reggono strumenti alludenti alla vita agreste. La terza cappella è intitolata a San Gregorio Magno, istitutore delle Messe gregoriane, ovvero la celebrazione ininterrotta di trenta messe a suffragio di un’anima del Purgatorio. Il santo è raffigurato benedicente sulla raffinata pala realizzata nel 1886 dal rinomato pittore Paolo Vetri (Enna 1855−Napoli 1937), discepolo nonché genero del pittore realista napoletano Domenico Morelli (Napoli 1826−ivi 1901). Sulle pareti laterali due pregevoli dipinti ad olio su rame, realizzati verso la metà dell’Ottocento dal sacerdote chiaramontano Gaetano Distefano (Chiaramonte 1819−ivi 1896), raffigurano Le anime del Purgatorio in preghiera. Il paliotto dell’altare è contrassegnato da un fine bassorilievo marmoreo che ritrae San Gregorio, inginocchiato ai piedi della Vergine con Bambino, che intercede per le anime del Purgatorio. La quarta cappella è quella intitolata alla Vergine Immacolata, raffigurata sia sul bassorilievo marmoreo del paliotto dell’altare, sia sulla pala d’altare, circondata da una ridda di angeli, eseguita nel 1865 dall’ancora pittore neoclassico Dario Querci (Messina 1831−Roma 1918). La quinta cappella conserva invece uno degli organi più preziosi e armoniosi non solo della Provincia di Ragusa ma della Sicilia stessa. Costituito da oltre tremila canne venne in origine inserito all’interno di una artistica cantoria, in legno scolpito e indorato, collocata sulla quinta arcata destra della navata centrale. Costruito dalla rinomata ditta Serassi di Bergamo, venne inaugurato il 24 giugno 1858, solennità della Natività di San Giovanni Battista. In seguito all’istituzione della diocesi di Ragusa e all’elevazione della chiesa di San Giovanni a cattedrale nel 1950, vennero attuati dei riadattamenti al fine di ottenere maggiore spazio, per cui non soltanto si procedette alla rimozione del pulpito collocato sull’ultima arcata di sinistra della navata centrale (oggi custodito al Museo della cattedrale) e della balaustra che chiudeva il presbiterio, ma anche allo smontaggio di tutto l’organo con lo spostamento dell’impianto all’interno di questa cappella, in una nuova struttura in legno anch’essa scolpita e indorata ed elettrificato nel 1966 ad opera della ditta Tamburini di Crema. La cantoria venne invece ricomposta sopra il portone centrale divenendo interamente un chiaro elemento decorativo.
Il perfetto stato di conservazione valutato al termine di un recente restauro, conferma l’eccezionalità di questo gioiello, che è il vanto della cattedrale e del patrimonio chiesastico regionale.
Giunti nel braccio destro del transetto ci si trova davanti all’altare della Natività, sovrastato da un dipinto della seconda metà del XVIII secolo raffigurante l’Adorazione dei pastori, di cui rimane ignoto il nome dell’autore, anche se non è esclusa un’attribuzione al chiaramontano Simone Ventura (Chiaramonte 1700−ivi post 1762), il quale, dopo aver realizzato la prima versione, oggi custodita nella chiesa di Santa Maria La Nova a Chiaramonte, sembra abbia eseguito altre repliche, più o meno identiche, presenti nel circondario.
L’opera infatti risulta essere una rivisitazione molto fedele di quella dipinta dal noto pittore partenopeo Sebastiano Conca (Gaeta 1680−Napoli 1764) tra il 1720 e il 1740 e oggi conservata al Paul Getty Museum di Los Angeles, conosciuta indirettamente dal Ventura in quanto discepolo di Olivio Sozzi (Catania 1690−Ispica 1765), a sua volta estimatore e imitatore del Conca. Contornata dai pregevoli stucchi dei Gianforma raffiguranti L’Eterno Padre e gli angeli, sormonta l’altare all’interno del quale è collocato un pregevole presepe in terracotta realizzato dal ragusano Arturo Di Natale nel 1949.
Parimenti ricchissima di stucchi indorati su un tenue fondo turchese è la cappella del Santissimo Sacramento, adornata a spese dell’omonima opera pia. Un vero e proprio scrigno di simboli eucaristici come l’occhio di Dio inscritto nel triangolo, il pozzo della samaritana, l’Arca dell’Alleanza, il pellicano sul catino absidale e come preannunciato in alto da due amorevoli puttini reggenti la scritta “Ego sum panis vivus” (Io sono il pane vivo−Gv 6, 44−51).
La cappella è caratterizzata da un fine altare realizzato nel 1787 da Giuseppe Marino, sul cui paliotto è applicato un medaglione indorato con la narrazione della Cena in Emmaus e che è sormontato da un tempietto entro cui è custodito un ottocentesco dipinto del Sacro Cuore di Gesù. Sulle pareti laterali si stagliano due altorilievi in marmo realizzati da Giuseppe Prinzi (Messina 1825−Frascati 1895) nel 1870. Quello di destra descrive la narrazione dell’Ultima Cena, mentre quello di sinistra narra l’Offerta di Melchisedech, quest’ultimo figura veterotestamentaria nell’atto di offrire il pane e il vino a Dio a nome di Abramo. Giunti dinanzi all’abside, lo sguardo viene catturato dall’eleganza, dalla sontuosità e dal profumo degli stalli corali realizzati finemente in noce nazionale da Ippolito Cavalieri nel 1798, su disegno di Lorenzo Cutelli.
L’altare di fondo, in pietre dure e bassorilievi in rame dorato, opera di fine Ottocento del catanese Sciuto Patti interamente donata dai massàri, venne accantonato in seguito alla riforma liturgica del Concilio Vaticano II, che prevedeva lo spostamento dell’altare verso il centro del presbiterio per favorire il dialogo tra celebrante e fedeli. Al di sopra spicca il prezioso tosello, ovvero un grande drappo rosso raffigurante l’Agnello sul libro dei sette sigilli, sovrastato da una copertura a baldacchino su cui è impressa una colomba, emblema dello Spirito Santo. Finanziato anch’esso dai massàri nel 1853, venne minuziosamente ricamato in velluto e oro all’interno della chiesa stessa, per via delle sue manifeste dimensioni che resero necessaria la costruzione di un apposito telaio in legno.
Gli affreschi sulle pareti, riportanti scene della vita del Battista, sono del pittore romano Primo Panciroli (Roma 1875−Acireale 1946) che li realizzò nel 1926. Sulla parete di sinistra la Predicazione di Giovanni sulle rive del Giordano, a seguire l’Annuncio dell’angelo a Zaccaria, Sant’Elisabetta con Giovanni fanciullo e sulla parete di destra il Martirio di San Giovanni. Da rimarcare anche gli affreschi sui pennacchi della cupola raffiguranti gli Evangelisti, terminati da Salvatore Cascone nel 1933 ancora una volta a spese dei massàri.
Affianca l’abside la cappella della Decollazione, così denominata perché anticamente vi era un’opera raffigurante il martirio del Battista, come riporta il rilievo del paliotto. Sopra l’altare spicca la grande pala raffigurante San Giovannino, accanto a una bambina che abbraccia l’agnello, la piccola marchesa Carlotta Schininà che fu miracolosamente guarita da una malattia mediante la sua intercessione. Il quadro pertanto risulta essere un ex voto che per volere della famiglia Schininà venne commissionato a Paolo Vetri che lo terminò nel 1906. Anche in questa cappella sono presenti due altorilievi su entrambe le pareti laterali. Sulla destra è incastonata la scena della Decollazione di San Giovanni, mentre sulla sinistra l’Imposizione del nome di Giovanni da parte di Zaccaria. Le due opere sono state finemente realizzate in stucco dallo scultore catanese Carmelo Guglielmino nel 1906. Sulla volta la scritta in latino su di un cartiglio attesta la proclamazione, mediante la bolla di papa Leone XIII emanata il 13 gennaio 1896, di “San Giovanni Battista Patrono di Ragusa Superiore”.
Nel braccio sinistro del transetto segue l’altare della Madonna del Buon Consiglio o del Crocifisso, sovrastato appunto da un crocifisso bronzeo del Novecento su un fondo pittorico ritraente il gruppo dei dolenti, ossia l’Addolorata, la Maddalena e Giovanni l’Evangelista. A contornare l’intero gruppo gli stucchi dei Gianforma che ritraggono le tre virtù teologali: Fede (sinistra), Carità (in alto) e Speranza (destra). Infine un piccolo dipinto del 1744 attribuito al Quattrocchi, raffigurante la Madonna del Buon Consiglio, è adagiato sopra l’altare.
Sulla parete sinistra si trova oggi il cenotafio, realizzato nella seconda metà del Novecento, che fino al 26 settembre 2019 è stato invece il monumento sepolcrale dove riposavano le spoglie mortali del ragusano mons. Giovanni Jacono (1873−1957), vescovo di Caltanissetta per 35 anni, che per via delle sue virtù eroiche e umane è stato proclamato Venerabile dal Santo Padre Francesco in attesa dell’ormai prossima canonizzazione. La cosa ha spinto la diocesi di Caltanissetta a chiederne i resti mortali, che sono stati quindi estumulati e traslati definitivamente all’interno della cattedrale nissena il 28 settembre 2019. Procedendo per la navata laterale sinistra si giunge alla quinta cappella in cui predomina la commovente tela del Cristo alla colonna, opera di fine Settecento del palermitano Antonio Manno (Palermo 1739−ivi 1810), la cui drammaticità sembra essere ravvisata anche dal volto mesto di putti sparsi all’interno della cappella.
Uno statuario Cristo alla colonna è racchiuso altresì all’interno del medaglione marmoreo posto sul paliotto dell’altare.
Inoltre al di sotto dello stesso riposano le spoglie mortali del terzo vescovo di Ragusa mons. Angelo Rizzo (1926−2009), che sono state tumulate nel 2019 dopo il rientro da Montedoro (CL), città che ha dato i natali al presule che ha guidato la diocesi di Ragusa dal 1974 al 2002.
Nella quarta cappella prevale la fastosa decorazione a stucchi indorati e la sublime pala d’altare, raffigurante l’Addolorata, dipinta dai fratelli Giuseppe e Francesco Vaccaro da Caltagirone nel 1862. È una pittura ancora pregna di reminiscenze barocche e qualitativamente molto elevata, dove predomina una forte intensità emotiva particolarmente tangibile sul volto della Vergine Maria, madre trafitta da un immane dolore e rimasta sola ai piedi della croce per condividere le sofferenze del Figlio appena crocifisso. Il suo strazio è solamente mitigato dalla sua totale fiducia verso il progetto di Dio. La raffigurazione desolante e arida del Golgota, pur tristemente immerso in un’atmosfera rabbuiata, dove anche il sole sembra abbia perso la sua energia, lascia tuttavia intravedere la città di Gerusalemme in lontananza e contrasta con la calda luce che, sopraggiungendo dall’alto, illumina la nuda roccia, su cui si appoggia la Vergine, e gli strumenti della Passione del Salvatore, abbandonati a terra in modo disordinato. Tutto questo concorre, insieme al dolore manifestato dalla torma di cherubini, ad accentuare il dramma che si sta consumando. L’opera è stata ricollocata in questa cappella nel 2021, dopo ben 76 anni, perché nel 1945 venne sostituita da un notevole dipinto di Salvatore Cascone, raffigurante sempre l’Addolorata, che gli venne commissionato a spese di una nobildonna della parrocchia e oggi gelosamente custodito nel Museo della cattedrale.
Sul paliotto dell’altare la riproposizione marmorea della Vergine Addolorata.
La terza cappella è invece intitolata a San Filippo Neri, ma in origine era dedicata ai santi Crispino e Crispiniano, come ancora oggi testimonia il medaglione marmoreo del paliotto dell’altare che ne raffigura il martirio. La pregevole tela raffigurante il santo titolare inginocchiato in atteggiamento di adorazione ai piedi della Madonna con Bambino, è attribuita al già citato Sebastiano Conca, formatosi nella bottega napoletana di Francesco Solimena (Serino 1657−Napoli 1747), comunemente conosciuto come l’Abate Ciccio, e databile alla seconda metà del Settecento.
Così pure la seconda cappella, oggi in onore a San Giuseppe, un tempo era riservata a San Michele Arcangelo, la cui effigie si staglia sia sul medaglione marmoreo del paliotto dell’altare, sia in rilievo sulla parete laterale sinistra dirimpetto a quella dell’arcangelo Gabriele (parete laterale destra).
La splendida statua lignea policroma raffigurante San Giuseppe con il bambinello Gesù, così densa di realismo e umanità, concepita dalla fine mente del napoletano Pietro Padula nella seconda metà del Settecento per l’omonima chiesa, demolita ignobilmente per far posto al palazzo prefettizio, venne conseguentemente preservata e inserita in questa cappella per sostituire la grande tela di ignoto autore, datata 1759, raffigurante San Arcangelo Michele vittorioso su satana, che venne quindi spostata nel braccio destro del transetto, accanto all’altare della Natività, dove si trova ancora oggi.
Il percorso si conclude dinanzi alla prima cappella che è stata rimaneggiata e trasformata in una cameretta chiusa da una vetrata, in quanto custodisce il venerato simulacro di San Giovanni Battista, Patrono Principale della Diocesi e della Città di Ragusa. La statua, poggiante su un fastoso fercolo indorato, è opera sublime del ragusano Carmelo Licitra (Ragusa 1823−ivi 1911), che la estrasse da un unico blocco di legno di cipresso e la consegnò alla città e alla fervida devozione dei ragusani nel 1861.
Considerato uno dei più bei capolavori lignei della Sicilia e un vero monumento di pietà popolare, viene portato in processione nei giorni 27−28−29 agosto insieme all’arca santa o urna reliquiaria, ma quella del 29 è sicuramente la più suggestiva in quanto vi prendono parte migliaia di devoti con torce, che si dipanano tra le vie del centro storico di Ragusa superiore. Bisognò aspettare il 30 maggio 1778 perché questo meraviglioso gioiello architettonico, intitolato a San Giovanni Battista, venisse consacrato dall’allora vescovo di Siracusa mons. Giovan Battista Alagona, nonostante i lavori di completamento, come detto precedentemente, non fossero stati dichiarati ancora conclusi.
I giardini esterni
Intorno alla seconda metà dell’Ottocento si pensò di riconvertire in aree verdi gli spazi laterali di corso Italia e corso Vittorio Veneto, un tempo destinati alla sepoltura di coloro per i quali non era prevista la tumulazione all’interno delle innumerevoli cripte, poste al di sotto del pavimento della chiesa, perché riservate esclusivamente ai nobili, ai membri delle confraternite e delle opere pie che ivi risiedevano. Questo stravolgimento venne attuato in seguito all’Editto napoleonico, emanato a Saint Cloud nel 1804 che, per ovvie ragioni igienico sanitarie, proibì tassativamente la sepoltura all’interno delle chiese, dando inizio quindi alla nascita dei cimiteri comunali.
L’attraversamento di ambedue i giardini consente di accedere in cattedrale dagli ingressi laterali e in particolare quello di corso Vittorio Veneto, durante il giorno della ricorrenza della Natività e Decollazione di San Giovanni, rigurgita di gente per via di una statua esterna del patrono di Ragusa, dinanzi alla quale in centinaia lasciano una torcia accesa in segno di devozione. Queste due aree verdi possono essere considerate vere e proprie piccole oasi dove si possono ritrovare le più svariate specie botaniche, come il ficus magnolioide, il melograno, l’ulivo, la palma, il pino, l’alloro e altre essenze arboree e piante rampicanti, che non soltanto esaltano ulteriormente la bellezza dell’intero monumento, ma possono rendere piacevole sia una passeggiata tra i vialetti rimarcati dalle aiuole, sia anche una effimera sosta sugli eleganti sedili rigorosamente in pietra pece che, insieme alle elaborate fontane zampillanti con vasca, sono ancora una volta testimonianza della creatività e della sapienza costruttiva dei nostri maestri scalpellini. Un altro luogo ideale quindi per ritemprare lo spirito, nel cuore del centro storico di Ragusa superiore.
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